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1916

 


 
Albert Einstein e Max Planck

Verifica della validità dell’equazione di Einstein per l’effetto fotoelettrico

e determinazione della costante di Planck h

 

 

Il 30 ottobre 1911 Ernest Solvay, un ricco industriale che produceva con le sue fabbriche diffuse in tutto il mondo la “soda caustica”, apre, in una piccola sala dell’Hotel Metropole, a Bruxelles, il primo Congresso Solvay, un incontro tra i più prestigiosi scienziati dell’epoca. Tra gli altri (18 in tutto) erano presenti: H.A. Lorentz, M. Curie, H. Poincaré, M. Planck, A. Einstein, E. Rutherford, M. De Broglie

 Fig.[1]

 

Il tema del congresso riguardava la teoria della radiazione alla luce dell’ipotesi dei quanti, ipotesi che Poincaré definì come “la più grande e più profonda rivoluzione che si sia avuta in filosofia naturale dai tempi di Newton” in quanto sconvolgeva i principi della meccanica e le proprietà della materia. E il dilemma più pressante, espresso da Planck stesso durante il congresso era: “il quanto d’azione ha un significato fisico per la propagazione dell’energia radiante nel vuoto oppure interviene soltanto nei processi di emissione e di assorbimento?”

Per cercare di risolvere la questione al Congresso furono presentate dodici relazioni in cui furono avanzate diverse prospettive, seguite da lunghe e approfondite sessioni di dibattito. Le posizioni erano divise. Lorentz considerava l’idea dei quanti troppo “pericolosa” e tendeva ad ottenere la legge di radiazione per altre vie, più conciliabili con la visione classica. Come lui la pensavano altri scienziati, mentre Einstein era favorevole a proseguire lungo la nuova strada, anche se al congresso, nella sua relazione avvertiva “Insisto sul carattere provvisorio di tale concetto [quanti di luce] che non sembra conciliabile con le conseguenze empiricamente verificate della teoria ondulatoria”[2]

Nel 1900, infatti, Planck aveva risolto il problema del corpo nero, a lungo dibattuto tra i fisici a fine ottocento. Il problema consisteva nel fatto che non esisteva una teoria in grado di spiegare lo spettro di emissione di una cavità radiante. I vari tentativi fatti riuscivano ad ottenere soltanto leggi che riproducevano solo parti di quello spettro. Planck, nel cercare di conciliare i tentativi fatti aveva ipotizzato che l’energia emessa o assorbita potesse assumere soltanto valori discreti che dipendevano da una costante h. All’inizio i fisici, tra i quali lo stesso Planck, avevano ritenuto che la soluzione trovata potesse essere considerata come uno stratagemma che successivamente avrebbe potuto essere inquadrata nella fisica classica. Non era stato così per Einstein che aveva creduto subito nella realtà dei quanti di energia e, nell’articolo del 1905, “Un punto di vista euristico relativo alla generazione e alla trasformazione della luce”, che gli varrà il premio Nobel, aveva sostenuto che non solo all’atto dell’emissione e dell’assorbimento l’energia doveva pensarsi sotto forma di “pacchetti”, ma la composizione stessa della radiazione doveva considerarsi discreta. Questa teoria, scriveva Einstein, avrebbe reso “più comprensibili” i fenomeni legati alla “fotoluminescenza, alla generazioni dei raggi catodici tramite luce ultravioletta e a altre classi di fenomeni concernenti la generazione o la trasformazione della luce”. Dedicò quindi un intero paragrafo del suo articolo[3] per dare spiegazione del cosiddetto “effetto fotoelettrico”.

All’epoca in cui Einstein se ne era interessato, la fotoelettricità era un argomento di avanguardia come la radioattività. Il primo a osservare un fenomeno fotoelettrico era stato, nel 1887, Heinrich Rudolph Hertz (1857-1894), che si era imbattuto nell’effetto fotoelettrico durante la serie di esperimenti atti a dimostrare l’esistenza di onde elettromagnetiche e confermare così la natura elettromagnetica della luce.

Hertz utilizzava una bobina ad induzione collegata con uno spinterometro. Quando la bobina entrava in funzione le cariche venivano messe in rapida oscillazione lungo lo spinterometro e il loro moto era rivelato dalle scintille che scoccavano fra le sferette.

Per rivelare le onde elettromagnetiche così prodotte Hertz aveva utilizzato un secondo spinterometro a forma di spira all’interno del quale, secondo le sue previsioni, le cariche avrebbero dovuto oscillare sotto l’azione delle onde elettromagnetiche prodotte dal primo spinterometro. Come previsto, ogni volta che il primo spinterometro entrava in funzione, una debole scintilla scoccava tra le sferette dello spinterometro ricevente.

Dato che questa era più difficile da vedere, Hertz le mise attorno uno schermo per eliminare la luce indesiderata. Si era accorto che ciò provocava un accorciamento della scintilla secondaria, accorciamento causato dallo schermo interposto, indipendentemente dal materiale di cui era fatto. Cominciò a sospettare che l’effetto poteva essere dipendente dalla luce della scintilla primaria e, dopo una serie di esperimenti ad hoc arrivò alla conclusione che la luce ultravioletta prodotta dalla scintilla primaria aveva la capacità di potenziare la scintilla secondaria. A seguito dei suoi esperimenti nel 1887 aveva pubblicato l’articolo “Un effetto della luce ultravioletta sulla scarica elettrica”, in cui era evidenziato un legame fra fenomeni elettrici e fenomeni luminosi. Ciò aveva dato l’avvio a indagini, esperimenti, formulazioni di ipotesi da parte di molti scienziati.

Tra i più importanti troviamo:

-       Hallwachs, nel 1888, aveva dimostrato che corpi metallici scarichi, irradiati con luce ultravioletta, si caricavano positivamente e Stoletow aveva costruito, nel 1889, la prima cella per produrre corrente fotoelettrica e aveva trovato che tale corrente è proporzionale all’intensità della luce assorbita. Si noti il fatto che siamo in un periodo antecedente la scoperta dell’elettrone e quindi era assai difficile dare una interpretazione dell’effetto.

-       Nel 1897 J.J. Thomson coi suoi studi sui raggi catodici aveva scoperto l’elettrone e ne aveva misurato il rapporto tra carica e massa. Un anno dopo, nel 1899, usando gli stessi metodi che aveva applicato ai raggi catodici, aveva trovato che l’effetto fotoelettrico provocato dalla luce ultravioletta consisteva nell’emissione di elettroni in quanto aveva ritrovato lo stesso valore del rapporto m/e. Poiché nel frattempo era stata inventata ad opera di Wilson, suo allievo, la camera a nebbia, Thomson era riuscito anche a determinare il valore di e proprio attraverso l’effetto fotoelettrico.

-       Nel 1902 Philippe Lenard (1862-1947) aveva scoperto che: l’energia dell’elettrone non mostrava “la benché minima dipendenza dall’intensità della luce incidente”, l’emissione dei portatori di carica avveniva solo ad una frequenza superiore ad un valore minimo (frequenza di soglia) e la loro energia cresceva al crescere della frequenza. Questi fatti erano inspiegabili in base alla teoria ondulatoria della luce.

Nell’articolo del 1905 Einstein, con l’assunzione che la luce, viaggiando nello spazio si comportasse come un insieme di particelle di energia hn aveva dato spiegazione di tutti i fatti sperimentali fino ad allora noti.

Se infatti ai quanti di luce corrispondeva un’energia hn cioè un’energia proporzionale alla frequenza, a ciascuna radiazione (per esempio, per restare nel visibile, luce rossa o verde o viola) competeva una diversa energia a seconda della frequenza (o della lunghezza d’onda). E quindi, a parità di intensità, illuminare un oggetto con luce violetta, significava fornire una quantità di energia maggiore di quella che si fornirebbe illuminando lo stesso oggetto con luce rossa.

Si poteva allora supporre che, quando sullo strato superficiale del corpo incidevano quanti di energia, essi fossero ceduti a singoli elettroni. Parte dell’energia ceduta era utilizzata dall’elettrone per compiere il lavoro di estrazione necessario per abbandonare il corpo, la restante energia del quanto la si ritrovava sotto forma di energia cinetica dell'elettrone.

Doveva dunque valere l’equazione

dove Emax è l’energia cinetica dell’elettrone, ν è la frequenza della luce incidente, h la costante di Planck e P il lavoro di estrazione, cioè l’energia necessaria per sfuggire dalla superficie del metallo. Con questa equazione e con il grafico che la illustra si spiegavano tutti i fenomeni e, in particolare la presenza della soglia ν0: se la luce era trasportata per quanti di energia, vi era una frequenza minima per riuscire a strappare l’elettrone, tale che hν0= P; quando la frequenza era maggiore di ν0, allora l’elettrone acquistava l’energia cinetica data dalla formula precedente; tale energia aumentava linearmente all’aumentare della frequenza.

Poiché “l’interazione tra radiazione e materia consiste di una moltitudine di processi elementari identici fra loro”, gli elettroni divelti dovevano avere tutti la stessa energia, qualunque sia l’intensità del fascio di luce incidente. L’aumento dell’intensità della luce incidente consentiva soltanto un aumento nel numero degli elettroni emessi.

La conferma sperimentale dell’equazione di Einstein arrivò soprattutto ad opera di Millikan, il quale passò dieci anni della sua vita a sottoporre a controlli e verifiche l’equazione di Einstein del 1905 e, nel 1915, fu costretto, secondo le sue parole, ad ammettere che essa era verificata con certezza “a dispetto della sua irragionevolezza, poiché sembrava violare tutto ciò che sapevamo sull’interferenza della luce”.

Millikan pubblicò i suoi risultati su Physical Review nel 1916[4] dove ancora scrive “l’equazione di Einstein per l’effetto fotoelettrico (…) appare in ogni caso capace di prevedere esattamente i risultati delle osservazioni (…) Tuttavia la teoria semicorpuscolare tramite la quale Einstein è pervenuto alla sua equazione sembra, allo stato attuale, del tutto insostenibile”[5].

In tale articolo Millikan fornisce i particolari degli esperimenti fatti e una sintesi dei suoi risultati: l’equazione di Einstein è verificata assai bene; essa implica cinque asserzioni:

1)      esiste, per ciascuna frequenza ν di eccitazione, sopra un certo valore critico, una velocità massima di emissione dei corpuscoli;

2)      c’è una relazione lineare tra v e ν;

3)       la pendenza della linea v, ν è numericamente uguale a h/e;

4)      la frequenza critica no a cui v=0, P=hν0, cioè l’intersezione della linea v, ν sull’asse ν è la più bassa frequenza a cui il metallo in questione può essere foto elettricamente attivo;

5)      il contatto E. M. F. tra due conduttori è dato dall’equazione

Con dispositivi estremamente sofisticati e esperimenti fatti con la massima cura Millikan determina la costante di Planck per via fotoelettrica con una precisione dello 0,5 %, ottenendo il valore h=6,57x10-27 erg-sec, un valore di gran lunga migliore di quanto era stato ottenuto in ogni tentativo precedente.

Si dovette aspettare il 1923 per fugare ogni dubbio sulla realtà del quanto di luce. In quell’anno infatti Arthur Compton pubblicò i risultati dei suoi studi sulla diffusione di un fotone da parte di un elettrone. Nel suo lavoro Compton concluse “Il supporto sperimentale della teoria indica, in modo assai convincente, che un quanto di radiazione trasferisce quantità di moto orientata oltre che energia”.[6] E’ la verifica dell’esistenza del fotone.

Planck ricevette il Nobel nel 1918, Einstein nel 1922 (per l’anno precedente). Nel 1923 il Nobel fu conferito a Robert Millikan “per il suo lavoro sulla carica elementare e sull’effetto fotoelettrico”. Arthur Compton lo ricevette nel 1927 “per la scoperta dell’effetto che da lui prende il nome”



[1] Seduti, da sinistra: W. Nernst, M. Brillouin, E. Solvay, H. Lorentz, E. Warburg, J. Perrin, W. Wien, M. Curie e H. Poincaré. In piedi, da sinistra: R. Goldschmidt, M. Planck, H. Rubens, A. Sommerfeld, F. Lindemann, M. de Broglie, M. Knudsen, F. Hasenöhrl, G. Hostelet, E. Herzen, J.H. Jeans, E. Rutherford, H. Kamerlingh Onnes, A. Einstein e P. Langevin.
Quando è stata scattata la foto, Solvay, in effetti, non c'era: la sua testa è stata inserita successivamente, il che ne spiega le bizzarre proporzioni. 

[2] A. Pais, Sottile è il Signore …, Boringhieri, p. 409

[3] A. Einstein, Un punto di vista euristico relativo alla generazione e alla trasformazione della luce, in Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, p. 132-134

[4] R. A. Millikan, A Direct Photoelectric Determination of Planck’s “h”, Phys. Rev. VII, 3, 2016

[5] A. Pais, Sottile è il Signore …, Boringhieri, p. 379

[6] A. Pais, Sottile è il Signore …, Boringhieri, p. 441